Anghiari e gli artigiani del legno *

"..il falegname non si può dimenticare..." dicono questi artigiani che parlano del loro lavoro. Rimane dentro la persona come i collanti che si usavano, mentre l'infanzia cresceva nella bottega. Appena più grandi, tolti ai giochi del paese, i ragazzini di nove anni 'drizzavano i chiodi', in quei locali nei vicoli o affacciati sulle piazze di Anghiari che sarebbero diventati dei laboratori visitati da molti clienti.
Ai primi del '900 le macchine per lavorare il legno si noleggiavano da Settimio Giorni, detto "arnese", il babbo di Vitruvio, ebanista e insegnante d'arte applicata presso l'Istituto d'Arte durante gli anni sessanta (1960).
L'adolescenza trascorreva fra i garzoni di bottega che poi se ne andavano perché il 'padrone' doveva pagare loro i contributi ma, intanto, chi aveva occhio, annusava il lavoro per poi iniziare un'attività propria.
Così nella bottega degli anni '40, con cinque lire la settimana, si tenevano gli arnesi in ordine, si andavano a prendere i morsetti dagli altri falegnami, mentre s'imparavano i soprannomi degli altri artigiani e le chiacchere intime sulle famiglie del paese. Tra i ragazzi di bottega sorgevano amicizie e sodalizi per i futuri lavori mentre i loro padroni si tenevano alla larga.
Tanti i loro nomi come Boncompagni Pietro o quelli conosciuti con particolari soprannomi: Marconi Giocondo il 'Chioccolea', Leonardo Antonio detto 'Settantino' (il babbo fece tombola con settanta).

Nell'ambiente rurale anghiarese fino agli anni '40 e '50, il falegname restaurava itinerando per la campagna, gli utensili della vita quotidiana in casa o per i lavori agricoli; spesso tornava in bottega con un risarcimento in natura.
C'era qualche chiamata dei parroci, qualche pezzo nelle chiese da restaurare o da fare nuovo, delle commesse pubbliche come gli infissi di tutti i caselli della ferrovia dell'Appennino centrale o le bare per il comune.
I contadini tagliavano il legno dai loro alberi da frutto perché non tarlasse e poi lo davano ai falegnami; sovente si pagava solo una prima parte del lavoro o a rate, nel mentre si stava a vedere che il legno non si muovesse.
Nelle famiglie si ordinavano i bauli per il corredo, i canterani, la toilette, comodini e armadi.
L'antiquariato della zona fu rastrellato per ogni area censita al catasto dai grandi 'cercatori': Dino Ducci, il Bassino, il Croci di Sansepolcro, Amerigo Gaggiottini detto Scanapino, Gagliano Calli, Foscolo Matassi.
Spesso il venerdì era giornata di partenza, con il carico di mobili antichi per la via di Firenze.
In paese e nella Val Tiberina continuava il flusso migratorio del dopo-guerra verso la Francia, la Germania e l'America per sopperire alla vita faticosa, alla ricerca di un lavoro.
Erano gli anni dei mobili mettitutto, con la vetrina nel centro, nella parte alta: il suo posto era nella cucina e lì, dipinto di azzurro o grigio, vide passare anche più di una generazione della stessa famiglia.
Il benessere economico che iniziò in più famiglie, arrivò più tardi rispetto ai grandi centri, così negli anni sessanta i commerci si svilupparono con Firenze e altre città vicine.
I ragazzi adolescenti ora potevano scegliere se andare a scuola a Sansepolcro, al Liceo Scientifico, all'Istituto d'Arte, all'Istituto Tecnico Commerciale e le ragazze alle Magistrali o passare la Libbia, il valico per Arezzo, per i più privilegiati.
L'economia si riprendeva; i falegnami si guardavano intorno e commerciavano con altri centri come Pennabilli, anche l'artigianato e il restauro muovevano nuove attenzioni, interessi, desiderio di lavoro, di far crescere dei giovani per elevare la cultura e la pratica di quella abilità, coltivata da anni in Anghiari nelle sue botteghe artigianali.

Il senatore Giuseppe Bartolomei appoggiò l'idea dell'apertura di una scuola d'arte per il restauro, onde favorire un avvenire ai giovani del luogo; in questo fu sollecitato dal prepòsto Don Nilo Conti.
Fu coinvolto lo storico dell'arte Mario Salmi e, nel 1961 fu aperta la scuola, come sezione staccata della Scuola d'arte di Sansepolcro. Dal 1962, con la riforma scolastica, attraverso un decreto ministeriale, divenne autonoma come Istituto Statale d'Arte per il restauro.
Vennero insegnanti da più parti d'Italia più che gli artigiani anghiaresi che pur collaborarono con la scuola, attraverso le informazioni fornite ai docenti durante le loro visite alle botteghe artigianali.

(nella Foto a lato il maestro ebanista Angelo Dragoni)

Nel luogo si fecero un nome figure di antiquari e restauratori come Milton Poggini, Giuseppe Mazzi, Gagliano Calli, Giuseppe Del Sere, Mario Borghesi, Carlo Dragonetti, Vitruvio Giorni, Giuseppe Cambi, Rinaldo Pasquetti, Foscolo Matassi.
Il mercato fu movimentato da gente che veniva ad Anghiari per acquistare vari pezzi d'antiquariato che si potevano restaurare. L'Istituto d'arte, con i giovani usciti dalla scuola, favorì un cambiamento della classe artigiana più conservatrice, portando nuovi principi del restauro, nel rispetto del manufatto, con interventi appropriati. Gli artigiani, bravi falegnami, cominciarono ad interrogarsi sulle loro competenze di restauro del mobile antico.
Le cinque identità professionali coltivate nella didattica della scuola: ebanisteria, intaglio, laccatura, doratura, tarsia, furono e rimangono i capisaldi delle conoscenze di un artigiano, per così dire, completo.

Alcuni restauratori portavano con sé la curiosità e il fascino dell'antico, sviluppando, a latere del loro lavoro, interesse, studio, ricerca per altri manufatti in legno, ceramica, rame.
Ivan Bruschi, noto antiquario aretino, fu presidente del Consiglio di amministrazione dell'Istituto d'arte, tra gli anni '70 e '80, in sostituzione del senatore Giuseppe Bartolomei. Oggi, per sua volontà, la casa dove ha abitato in Arezzo è sede di un museo.

In paese viaggiava 'gente strana', si diceva, infatti per un decennio, tra il 1975 e il 1985, l'Istituto d'Arte accolse molti studenti stranieri.
Attualmente, dalle botteghe artigiane, si coglie il flusso pacato dei turisti che sbirciano dalle vetrine.

Ogni anno, per S.Giuseppe, nella festa del falegname, Anghiari accoglieva il suo "Camarlingo", figura che durava in carica un anno con lo scopo di accomunare i falegnami e unirli nel grande e festoso incontro dove ognuno portava il suo fiasco di vino, retaggio di tempi passati.
Nei rituali della festa, il "Camarlingo" presentava sulla tavola un dolce a forma di attrezzo da lavoro.
Si veniva dai paesi vicini anche in bicicletta come un vecchio artigiano di 82 anni, da Città di Castello.
Il più anziano non pagava la quota per la festa.

Nei loro laboratori gli artigiani si sono sempre costruiti da soli gli attrezzi di lavoro: pialle, piallette, sponderuole, nocelle, formelle, frese, scannellatoi, così come provavano, novelli alchimisti, la magia delle lacche, delle cere, dei collanti.

" il falegname non si può dimenticare..." rimane dentro anche nei periodi più bui per l'economia di Anghiari, quando 'Spilinga', il siciliano, a corto di soldi, andava in folle con l'auto, per la discesa di Sansepolcro. Ancora oggi, gli anghiaresi, nella loro ironia toscana, assegnano il termine 'spilingheggiare' a chi scende a motore spento per risparmiare benzina.

Carmen Ferrari

Febbraio 2004

* Testimonianze orali rilasciate da: Franco Tesserini, Angiolino Dragoni, Antonio Leonardi detto Settantino

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